21893
post-template-default,single,single-post,postid-21893,single-format-standard,theme-stockholm,qi-blocks-1.2.7,qodef-gutenberg--no-touch,qode-social-login-1.1.3,qode-restaurant-1.1.1,stockholm-core-2.4,woocommerce-no-js,qodef-back-to-top--enabled,,qode-essential-addons-1.5.4,select-theme-ver-9.6,ajax_fade,page_not_loaded,qode_menu_,qode-single-product-thumbs-below,wpb-js-composer js-comp-ver-7.3,vc_responsive,elementor-default,elementor-kit-23401

Missione compiuta!

E’ andata.
La prima missione di Joy for Children, tanto attesa dai soci e da chi sta credendo in noi, è finalmente stata portata a compimento.

Abbiamo voluto aspettare il rientro in Italia per scrivere il nostro report. Non cerchiamo sensazionalismi, crediamo sia sufficiente rendere conto della nostra opera ai nostri sostenitori con una semplice nota su quanto fatto in quella terra per quella gente, senza cercare necessariamente applausi o attestazioni di merito.
Sono stati giorni intensi, lunghi, faticosi, ma pieni di grandi soddisfazioni che fanno sperare positivamente per la gente che vogliamo aiutare.
Chi sta cominciando a conoscerci sa che ci occupiamo di bambini, direttamente e indirettamente, in particolare oggi la nostra attenzione è rivolta al popolo siriano, tanto tormentato, che non ha pace, a questo popolo e ai suoi bambini che non hanno più un’infanzia, come invece ogni bambino dovrebbe avere.

Siamo partiti quindi per la Turchia, che ospita più di tre milioni di rifugiati siriani e dove poco meno della metà sono bambini e ragazzi minorenni. In questi giorni il governo turco bombarda ancora Afrin, città siriana a maggioranza curda, e lo fa perché considera i curdi terroristi, ma negli attacchi dal cielo e da terra cadono come sempre anche civili, bambini compresi. I curdi, dal canto loro, in tutta risposta lanciano da terra colpi di artiglieria che piovono sulle città di confine, facendo qualche vittima tra la gente, ancora una volta bambini compresi.
Non vogliamo commentare la complicata questione curda, non è questa la sede per polemizzare e sprecare ancora parole per una guerra interminabile e che si rinnova, si trasforma, rinasce cambiando forma come un virus che resiste agli attacchi di potenti farmaci. Peccato che di potenti farmaci non se ne vedano proprio da queste parti, né altrove.
Ciò che non manca sono i catalizzatori dell’odio, inestirpabili come le peggiori malattie.
In questi quattro giorni di missione abbiamo portato un po’ di sollievo a famiglie che ne avevano bisogno, in un luogo nuovo per noi. A quelle più numerose abbiamo consegnato pacchi con generi alimentari di uso comune secondo il loro stile di vita, insieme a vestiti e giocattoli. Piccoli gesti perché arrivasse loro un minimo di calore umano.
Tra una consegna e l’altra abbiamo giocato, scherzato con i bimbi, cercando soprattutto di strappare loro un sorriso. Sono creature che conoscono poco del mondo e non immaginano che oltre la guerra e la cattiveria esiste anche la bellezza.
Due giorni di consegne e di incontri a volte estremi, duri da sopportare, considerando che chi rimane offeso lì, rimarrà per sempre così, destinato a sopravvivere anche peggio degli atri sfortunati. Ogni colpo ha una conseguenza odiosa, micidiale e non sempre i segni più tremendi sono visibili. Questo luogo non è diverso da Kilis, oggi irraggiungibile per noi, e ti fa pensare a quanta gente in questa terra rimane ancora abbandonata a se stessa, trasparente agli occhi dell’umanità.

Poi è giunto il tempo di muoversi al confine.
Ad aspettarci Reyhanli e il nostro nobile medico che dirige l’ospedale siriano con quel maledetto muro di cemento e filo spinato alle sue spalle, muro che incombe come il piombo che cade dal cielo azzurro di questi giorni.
Nessuno ci ferma, nel tragitto l’aria diventa rarefatta, anomala… strana. La paura tace dentro ognuno di noi nascosta da battute stupide. I colpi di artiglieria pesante continuano a cadere anche adesso sulle case non lontano da qui, ma noi ne siamo all’oscuro.
Il sole splende, pensiamo che la guerra non sia possibile nelle belle giornate, incrociamo per strada sempre meno automobili e immaginiamo che la gente si chieda preoccupata dove stiamo andando.
La Siria è lì, di fronte a noi, sulle colline che sormontano quel muro spinato che si snoda e che ci ritroviamo sempre davanti. I soldati non ci fermano e finalmente entriamo a Reyhanli. Guardiamo la mappa sul telefono e “Dio mio…” penso, siamo tremendamente vicini, solo qualche centinaio di metri da quel suolo siriano che in fondo è lo stesso di quello turco… e consideriamo amaramente che quel limite, in fondo, siamo noi. Nessuno ci ha voluti divisi.
È l’uomo stesso che crea confini, l’uomo pone limiti ai suoi stessi fratelli.
Uno sparo interrompe la nostra fragile calma, non sappiamo cosa fosse, ci guardiamo negli occhi tacendo e proseguiamo come non avessimo sentito nulla.
Arriviamo all’ingresso dove ci accoglie il nostro dottore. È come essere a casa, ci avvolge una piacevole sensazione. Nabil è un chirurgo in pensione che dirige l’ospedale di container in cui vengono assistiti i siriani offesi dalla guerra. Qui si tenta di ridare la pace a chi non la trova, si ricostruiscono vite e corpi smembrati, saltati sui barili-bomba o sulle mine, perforati da schegge maledette. Occhi, nasi, orecchie, pezzetti di ossa nuovi per visi di bambini e adulti resi anonimi da un destino bastardo.
Decidiamo di aiutarlo, serve tanto e siamo pronti.
Una bella intervista, un incontro amabile e cordiale, Nabil sembra un papà buono, uno che abbracceresti senza motivo. Prendiamo appunti, filmiamo, siamo felici. Ma ci giunge notizia di un altro colpo mortale sulla città, pensiamo, tacciamo ancora una volta indignati e sconcertati.
Dovevamo stare poco a Reyhanli e così è stato. Antiochia, in passato “di Siria”, ci aspetta perché l’indomani si partirà all’alba per tornare a casa.
La serata volge al termine, la tv nazionale mostra con orgoglio i continui attacchi dei turchi su Afrin e sulle postazioni dei “terroristi” curdi, gli stessi che hanno scacciato lo Stato Islamico da Raqqa. Non sappiamo che pensare se non che la guerra è una merda e che non se ne può più.
Andiamo avanti, torniamo per ricominciare a sperare e ad agire perchè tutto appaia più normale a questa gente dimenticata, a questi bambini che subiscono l’indifferenza dei potenti, e non solo.
Noi siamo Joy e iniziamo da qui.